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L’ambiente ravennate ti ha visto in ruoli diversi nell’arco degli ultimi decenni: prima insegnante ad attivista politico e sindacale, poi attivo sostenitore delle politiche interculturali, sia come membro fondatore dell’Associazione A.M.I.C.I. che come curatore di progetti fotografici quali “Ravenna immigrazione: un mondo a parte ?”, “Iraq, la guerra continua” e “La vita degli altri”. A cosa si deve “Controvento”?

 

Il titolo del progetto, la cui scelta non è stata facile, ma mi pare sintetico e calzante, prova a riassumere un atteggiamento, uno stato d’animo (ma contemporaneamente un modus operandi e vivendi)  che mi appartiene da molto, forse da sempre. Quell’essere “dalla parte del torto”, uno degli slogan del “Manifesto”, di cui sono stato uno dei fondatori a Ravenna nel 1971,  ha portato con sè la fatica quotidiana di dover difendere una posizione, delle idee e delle scelte. La foto in  copertina sottolinea però, volutamente, la naturalezza e in qualche modo anche la leggerezza di questo movimento “controcorrente”. Non è casuale, poi, che le persone rappresentate siano ragazze di colore, su un molo in Martinica. Si tratta infatti di un viaggio per immagini che contiene molti viaggi, nel tempo e nello spazio, dal 1962 ad oggi. Viaggi in cui ho scattato foto per ricordare, documentare, testimoniare momenti, luoghi, persone, senza prevedere un percorso unificante, senza immaginare di poterle trasformare in un libro. Circa un anno fa ho ripreso in mano le migliaia di negativi, diapositive, provini raccolti negli anni e alcuni di essi mi sono sembrati ancora capaci di comunicare qualcosa di attuale, non solo per me. Così è nato “Controvento”.

 

Il tuo non essere un fotografo di professione è stato un limite, ha rappresentato un problema?

 

Non sta a me dirlo, per alcuni potrò sembrare presuntuoso, per altri dilettantesco…

In realtà però, la sfida probabilmente è proprio questa. Chiedersi (e provare a rispondersi) quanti significati possa avere la fotografia oggi. Naturalmente il mio sguardo dietro all’obiettivo è stato suggestionato da grandi maestri di cui ho introiettato immagini. Penso fra gli italiani a  Ghirri e alla sua capacità di “umanizzare” i paesaggi, sapendone ascoltare i silenzi e dando dignità ad oggetti e luoghi dimenticati o a Giacomelli per la nettezza del tratto e la commozione trattenuta del suo bianco e nero. Ma non dimentico i réportage dei fotografi di guerra  o le documentazioni delle proteste politiche e sociali dal ‘68 in poi, né la perfezione tecnica con cui Eggleston dà corpo alla distruzione dell’American dream. Posso farlo, posso citare i miei riferimenti proprio perché non sono un fotografo di professione. Il mio scopo non è, ovviamente, raggiungere la perfezione estetica, ammesso che esista, cosa che non credo, né essere un reporter. La fotografia è uno dei linguaggi possibili; in alcuni momenti della mia vita è stato più forte e sintetico delle parole. Questo vorrei provare a condividere presentando “Controvento”.

 

Eppure alle parole, di scrittori ed artisti, hai dato spazio nel tuo progetto. Ce ne spieghi la ragione?

 

Le immagini scelte hanno un percorso tematico e ho chiesto ad alcuni amici (Gianni Celati, Giancarla Frare, Luigi Dadina e Marco Martinelli) di poter usare loro brevi testi come introduzione o commento. Sono stati generosi e la consonanza tra foto e parole mi pare significativa. In particolare Gianni Celati, che conosco dai tempi dell’università, mi ha accompagnato, anche se ultimamente da lontano, in tutti questi anni attraverso i suoi libri, le sue fantasie e le sue interpretazioni di Luigi Ghirri. Ivano Marescotti, poi, ha scritto appositamente sulla suggestione di alcune foto d’epoca dal mio archivio che gli avevo inviato. Il risultato è un testo molto personale e toccante.

 

Infatti, e questa è l’ultima domanda, “Controvento” inizia con immagini non scattate da te. Perché?

 

Come scrive Carla Babini nell’introduzione, con questo lavoro ho cercato di ricomporre frammenti (di memoria): è un viaggio nella duplice dimensione dello spazio e del tempo. Ma per poter partire si devono riconoscere le proprie radici: le prime immagini d’epoca si riferiscono allo zuccherificio di Mezzano, in cui sono nato, a mia madre, maestra d’infanzia a Piangipane, nell’asilo della cooperativa costruita dai lavoratori,  alle lotte bracciantili nella bassa ravennate. Marescotti ha saputo interpretare l’aspetto fondamentale della memoria.

 

Così come Giuseppe Maestri, amico dagli anni ’70, in tutt’altra forma.

 

A lui “Controvento” è dedicato. E lui sa perché.

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